Tutto cominciò, o purtroppo finì, quando il vivido bagliore della duplice esplosione dei siluri squarciò la luce dorata di un pomeriggio di settembre del 1943, esattamente il giorno 11 alle 17.45. Lo scafo grigio sussultò sull’acqua e l’agonia della vecchia nave fu breve: i colpi mortali che l’avevano spezzata in due avevano falciato anche le timorose speranze del folto equipaggio di militari e civili, che tentavano di sottrarsi ad uno dei momenti più tragici e peggio conosciuti della storia del nostro paese.
La parte prodiera affondò quasi subito, il troncone di poppa procedette invece per circa 200 metri, poi si coricò sul fianco sinistro e si inabissò, lasciando al mare il suo carico di naufraghi, successivamente raccolti dal piccolo convoglio guidato dalla motosilurante della Kriegsmarine dell’Oberleutnant Schmidt, che si allontanò in direzione di Venezia al termine della sua audace e piratesca impresa.
Appunti tecnico-storici: Il Regio Cacciatorpediniere Quintino Sella fu impostato presso i Cantieri Pattison di Napoli nel 1922 e consegnato alla Marina il 25 marzo 1926: la classe di 4 unità (Sella-Crispi-Nicotera-Ricasoli) a cui apparteneva costituiva il primo esempio di costruzione effettivamente post-bellica, anche se le sue linee denunciavano in modo inconfondibile una progettazione ispirata ai criteri della Grande Guerra con un dislocamento contenuto in appena 935 tons, mentre le dimensioni non arrivavano agli 85 mt. di lunghezza per poco più di 8,5 in larghezza. Il castello occupava il terzo anteriore dello scafo di disegno compatto, basso sull’acqua e privo di significativo cavallino a prua, il cui dritto scendeva al galleggiamento con una angolatura leggermente rientrante; i fumaioli erano due di diametro maggiore rispetto ai modelli immediatamente precedenti. Essenziali le sovrastrutture così come la ripartizione dell’armamento principale da 120 mm., curiosamente suddiviso inizialmente in un impianto singolo anteriore e uno binato sopra il casotto di poppa in postazioni scudate, buona la velocità di circa 35 nodi effettivi, assicurata da un affidabile apparato motore in linea coi tempi.
I difetti si riassumevano nell’instabilità del bastimento anche con mare relativamente mosso (problema comune a molte navi della stessa categoria in quell’epoca e parzialmente limitato dalla successiva installazione di alette antirollio) e nell’irrimediabile imprecisione di tiro: gli impianti binati erano infatti del tipo a culla unica, che permetteva un certo risparmio in peso e minori complicazioni tecniche (l’Italia era e rimaneva nonostante tutto un paese di modeste potenzialità), ma creava fastidiose interferenze delle vampe sui proietti in uscita dalle volate dei cannoni, dovute all’esigua distanza tra le canne. Unendo questo all’eccessivo scarto concesso nel confezionamento delle cariche di lancio, la dispersione della salva diventava notevole e casuale, impedendo di fatto un corretto inquadramento del bersaglio, fenomeno accentuato dall’inadeguatezza tecnologica degli impianti telemetrici per la direzione del tiro. Purtroppo o per fortuna l’Amministrazione della Regia Marina e il regime non posero alcun rimedio a queste pecche, che compromisero assieme ad un addestramento a dir poco ridicolo la partecipazione dell’Italia al conflitto.
Caratteristiche
Lunghezza: | 84,90 m |
Larghezza: | 8,6 m |
Immersione: | 3,55 m |
Dislocamento: | 1450 t |
Potenza: | 35.000 cv |
Velocità: | 33 nodi |
Armamento: | Dopo varie modifiche: 4 cannoni da 120/50 mm (in 2 complessi scudati) 6 mitragliere c.a. ( 2 da 40 mm, 4 da 13,2 mm) 4 lanciasiluri da 533 mm |
Equipaggio: | 5+120 |
Incontro al destino
Già nel 1940 i Sella non svolgevano più la tanto decantata attività di squadra, come scorta alle invincibile corazzate, che avrebbero sgominato le flotte anglo-francesi nell’epica battaglia decisiva. Due di essi furono venduti alla Svezia, il Sella fu invece assegnato alla perigliosa zona del Mar Egeo, dove partecipò con onore all’occupazione di diverse isole greche e compì ben 116 missioni di scorta e alcune alla ricerca del traffico inglese durante la battaglia di Creta. Rientrato a Venezia per lavori, ricevette all’armistizio il ben noto e discusso ordine di consegnarsi agli Alleati. Nel dilagante sfaldamento, sotto l’opprimente minaccia delle rappresaglie tedesche, la nave ormeggiata ai Giardini e in stato di notevole usura imbarcò militari e civili ed uscì dal porto.
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Le due Schnellboote S.54 e S.55 avevano lasciato Taranto il 9 settembre e dopo una fortunata crociera erano ormai in vista dell’agognata destinazione. Strada facendo avevano fatto sfracelli, minato il porto di Taranto, dove affondò l’H.M.S. Abdiel, catturate o affondate diverse navi italiane, tra cui la grande motonave mercantile Leopardi, e “dulcis in fundo” fermato il piroscafo Pontinia, una vecchia carretta del 1888 … quando fu avvistata una nave da guerra, rapidamente identificata per un cacciatorpediniere che dirigeva verso di loro.
Adesso si fa una bella fatica a capire e giustificare la sequenza degli avvenimenti: l’aggressivo comandante tedesco ormeggia la sua motosilurante sul lato del piroscafo non visibile dal cacciatorpediniere in rapido avvicinamento. Il comandante Cini sul Sella è probabilmente distratto dall’avaria alla caldaia n.2, che ha da poco obbligato la sua nave a ridurre la velocità ad appena 14 nodi (circa 25 kmh.); ignaro del pericolo (tutta la nostra guerra navale fu costellata da episodi simili), proseguì sulla rotta di sicurezza passando ad appena 400 metri di prora all’innocuo bastimento fermo!
Ovviamente non c’è bandiera di combattimento a segnalare le intenzioni del nemico, ex alleato dell’altro ieri, ma la guerra è così: l’Oberleutnant Schmidt balza a bordo dell’S.54 e ordina il lancio. I siluri sono già in acqua quando dalla nave intuiscono cosa sta accadendo: c’è appena il tempo di aprire il fuoco con le mitragliere e abbozzare una manovra evasiva.
In meno di mezzo minuto la partita è chiusa; il caccia non ha neppure risposto al timone e viene centrato all’altezza della plancia e in corrispondenza della prima caldaia: nell’affondamento perdono la vita 27 marinai ed un numero imprecisato di civili, probabilmente più di 200 persone. Alcune testimonianze raccolte nel 1987 durante una manifestazione commemorativa.
Alcune Testimonianze
>”Secondi lunghi come secoli …” inizia così la testimonianza di Francesco Toscano, sottotenente all’epoca dell’affondamento del Quintino Sella. Toscano era uno due ostaggi che si trovavano a bordo della motosilurante tedesca, ha ancor tutto davanti agli occhi. “Vedo le scie dei siluri che viaggiano velocissimi contro la nostra unità, sento il crepitare delle mitragliatrici. E’ il Quintino Sella che, accortosi dell’attacco risponde fulmineo. Ma arrivano prima i siluri, questione di secondi. L’equipaggio tedesco si alza in piedi, tutti sull’attenti mentre il Sella affonda rapidamente, spezzato in due.
Bruno Ferdani, meccanico navale, si trovava invece sul Sella: era sottocapo e prestava servizio in plancia. Lo avevano soprannominato il “postino”, perché a bordo era lui che distribuiva sempre la posta. Quando i siluri centrarono le caldaie del “Quintino Sella”, Ferdani si trovava in plancia. “Vedo sbucare – ricorda – la motosilurante che sino a quel momento si era tenuta nascosta dietro a un nostro mercantile, il “Leopardi”. Parte un’ordine secco…avanti tutta. Poi il botto, mi sento catapultato in acqua, riaffioro in un mare di nafta, urla strazianti, tutto molto in fretta, quasi nemmeno il tempo di rendersi conto dell’accaduto. I naufraghi vengono raccolti dal mercantile “Leopardi”.
Rimanevano in acqua decine e decine di naufraghi che le motosiluranti non raccolsero; questo dovere umanitario fu assolto dalle due motonavi italiane italiane e dai pescherecci che erano in zona. Molti i feriti gravi, alcuni con terribili mutilazioni come il comandante Cini e il Guardiamarina Piazza che ebbero una gamba amputata. Quanti ne furono raccolti non si seppe mai di preciso perché, giunti a terra, i feriti vennero ripartiti tra ospedali e luoghi di cura per un lungo tratto della costa italiana, né d’altronde si era a conoscenza di quante persone fossero a bordo quando la nave partì da Venezia.
(tratte da “il gazzettino” del 12/9/1988 e dal bollettino AMNI)
Il relitto oggi
Per molti anni del “Quintino Sella” si persero le tracce, finché nel 1972 alcuni sub localizzarono nuovamente il relitto spezzato in due tronconi e adagiato sul fondale, dopo il tentativo di recupero attuato nell’anno 1956.
Le due parti della nave in quell’occasione apparvero quasi completamente integre in tutte le loro parti: strumenti, armamenti, suppellettili; nel troncone di poppa la Santa Barbara era ancora colma di munizioni tanto che fu fatta saltare per ben due volte per evitare che qualcuno di impossessasse degli esplosivi.
Negli anni che seguirono il relitto fu venduto ad una impresa di recupero e quindi sistematicamente smantellato.
Il relitto del cacciatorpediniere Quintino Sella, spezzato in due tronconi, giace su un fondale sabbioso di 25 metri a dieci miglia al largo delle bocce di poro di Venezia, di fronte al Lido.
La plancia del relitto non esiste più o almeno non è possibile individuarne alcun elemento nei due tronconi dello scafo, in quanto è stata smantellata durante le prime operazioni di recupero effettuate nel 1956. Nelle immediate vicinanze del relitto sono presenti solo alcune lamiere
La prua della nave
Il troncone di prua, si presenta sostanzialmente integro e risulta appoggiato sul fianco di sinistra con il tagliamare rivolto verso l’alto e l’ancora ben visibile sotto lo scafo, sono inoltre riconoscibili il verricello salpa-ancore e una bitta. Spostandosi verso la parte centrale troviamo il primo complesso binato da 120 mm. con le canne rivolte verso il basso.
Non mancano comunque le sorprese, infatti non di rado è possibile scorgere sotto qualche lamiera qualche gruppo di corvine, oppure qualche astice.
Di rigore per chi si immerge su questa parte della nave, è la visita al grongo di casa, facendo comunque attenzione alle numerose reti abbandonate dai pescatori.
La parte centrale della nave
Il troncone centrale si trova a circa cento metri più al largo, a differenza della precedente questa parte ha subito una grossa devastazione alla struttura lineare il che rende molto difficile un naturale orientamento, inoltre durante i lavori di smantellamento lo scafo è stato tagliato lungo il piano di coperta ed ora le fiancate della nave sono appoggiate sul fondo lasciando così alla luce le due grosse e affascinanti caldaie (la prima è esplosa con uno dei siluri), le quali non più accoppiate a macchine alternative ma a turbine, riuscivano ad imprimere alla nave una velocità di 35 nodi.
Continuando la prospezione verso poppa troviamo due lanciasiluri ancora in posizione, il secondo complesso binato completamente integro con le bocche da fuoco, come nel caso precedente, rivolte verso il basso, quasi in segno di mutua resa.
Superata la parte poppiera sul lato di sinistra è possibile scorgere la sagoma dei due cannoncini anti-aerei e appoggiata sulla sabbia nella parte estrema della linea di frattura, una mitragliatrice .
Il relitto oltre che dalla reti di pescatori è avvolto anche da nuvole di merluzzetti e di saraghi, che accompagnano sempre i sub nelle loro escursioni. Proliferano anche gli spirografi, e attaccati a qualche tubo metallico sono in bella mostra alcuni astucci ovarici di gattuccio.
Ogni tanto durante le escursioni sul relitto, data la lontananza dalla costa, non manca l’incontro con qualche famiglia di delfini, anche se la presenza di tonni o verdesche non sono mancate.
Un ritrovamento importante
Il Gruppo di Ricerche Subacquee –ARGO- dal 1992 ha iniziato, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per il Veneto, una serie di attività di prospezione effettuando ricognizioni e riprese video al fine creare una documentazione sullo stato attuale del relitto.
Durante una delle numerose immersioni del 1995, sono state recuperate alcune pagine, perfettamente conservate ad eccezione di alcune bruciature, di un portolano di bordo della nave (relative alla zona di La Spezia). L’eccezionalità del ritrovamento non è
da ricercarsi nella tipologia del reperto, ma sullo stato di conservazione, infatti è molto difficile che la carta riesca a resistere per più di cinquant’anni sott’acqua senza danneggiamenti.
Il reperto ora si trova presso il Museo Storico Navale di Venezia.
Articolo a cura di Alessandro Tagliapietra e Massimo Giacomazzo